SECONDA  DOMENICA  DI  PASQUA

             La Liturgia di questa domenica ci fa rivivere, nella luce radiosa delle due apparizioni di Gesù Risorto ai suoi Apostoli, la gioia ineffabile della Pasqua del Signore. Le letture bibliche della Messa mettono in evidenza i doni stupendi che la Risurrezione di Cristo ha portato alla Chiesa e i frutti consolanti che la potenza dello Spirito Santo va già operando nelle prime comunità cristiane, attraverso i prodigi strepitosi compiuti dagli Apostoli.

            Il racconto delle apparizioni, riportato dal Vangelo di oggi, è arricchito da fatti e segni di particolare  importanza, che denotano la nuova condizione divina e gloriosa assunta da Cristo dopo la Risurrezione. Entrato “a porte chiuse” nel luogo dove erano radunati gli Apostoli, Gesù si affretta a offrire ad essi i frutti preziosi della Pasqua, sgorgati dal suo Cuore trafitto e risorto: col saluto “Pace a voi!” (Gv 20,19), Egli augura ai suoi il dono dell’avvenuta riconciliazione con Dio; alitando su di loro, infonde in essi il dono del suo Spirito e con esso trasmette loro il potere divino di continuare la sua missione sulla terra e di perdonare i peccati: “a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (ivi, 23). La Chiesa in tal modo diventa erede e depositaria di tutti i beni della  Risurrezione di Gesù e, di conseguenza, strumento di salvezza per l’umanità nell’opera di redenzione iniziata dal Salvatore.

            Nella seconda parte del Vangelo, leggiamo l’episodio dell’apostolo Tommaso. Questi non era presente nella prima apparizione del Risorto ai suoi. Al racconto degli altri apostoli, Tommaso protesta di non voler credere fin quando non vedrà e toccherà le ferite dei chiodi e del costato del Salvatore. L’apostolo ha sofferto per la perdita del Maestro e lo ama ancora; ha paura che sia frutto di allucinazione ciò che gli altri gli raccontano, perciò chiede un’evidenza per credere. E Gesù esaudisce alla lettera il suo desiderio. Apparendo di nuovo, il Signore mostra a Tommaso i segni inconfondibili della crocifissione. In questo modo Egli fa comprendere agli Apostoli che Colui che sta davanti a loro non è un fantasma, ma è lo stesso e identico Maestro che avevano conosciuto vivo e che avevano visto crocifisso. Nella luce di quello sguardo di dolce rimprovero, nella contemplazione diretta di quei segni d’amore, e soprattutto nel sentire quella voce: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel  mio costato” (Gv 20,27), l’apostolo esclama pentito: “Mio Signore e mio Dio!” (ivi, 28). All’istante svanì ogni dubbio e il suo cuore fu ripieno di gioia e di amore. Le parole di Tommaso sono un atto stupendo di fede che continua a illuminare il cuore di tutti i credenti.  

            Gesù conclude il dialogo con Tommaso con questo ammaestramento: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno” (ivi, 29). Il Signore vuole insegnarci che la fede del cristiano non deve essere come quella imperfetta e iniziale di Tommaso che ha bisogno di vedere segni esterni e straordinari per credere, ma deve essere più perfetta e matura, ossia una fede che permette al cristiano di avere una visione soprannaturale nel giudicare e conoscere il valore delle cose, nel vedere Gesù in ogni uomo e accettare gli  avvenimenti della vita come volontà divina. E’ la nuova “Beatitudine” proclamata dal Risorto per i credenti di tutti i tempi. Questa è stata la fede che ha contraddistinto i primi cristiani. Ma è proprio questa fede che manca oggi in gran parte dei seguaci di Cristo. Anche per noi non mancano momenti in cui la nostra fede, di fronte alle difficoltà, vacilla e, come Tommaso, andiamo in cerca di miracoli e segni straordinari per credere.

Padre Pio da Pietrelcina, a questo riguardo, voleva che i suoi figli spirituali fossero sempre forti nella fede, che camminassero sul sentiero di una fede matura; perciò li esortava a credere, senza mai chiedere segni. Leggiamo in una delle sue lettere: “Non chiedete un miracolo, non perché il Signore non sia inclinato a farlo, ma dovete guardarvi dal chiedere questo perché da parte vostra vi è imperfezione di fede” (Epistolario II, p. 247-8). Oggi sono molti i credenti che hanno una fede debole e vacillante, una fede che non ha alcuna incidenza sulla loro vita, né converte il mondo. La fede è un dono di Dio. Occorre, perciò, implorarne incessantemente da Lui la grazia e la crescita. Se abbiamo peccato di incredulità o se ci accorgiamo che vacilla, fissiamo lo sguardo sul Maestro, presente soprattutto nella sacra Eucaristia e facciamo prorompere dall’anima il grido dell’apostolo Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Queste parole possono aiutare anche noi a rinnovare la nostra fede in Cristo risorto. Ricorriamo sovente alla Regina degli Apostoli, nostro modello insuperabile di fede, e al Santo del Gargano, perché ci ottengano la grazia di una fede così profonda da trasformarci in ferventi apostoli della Risurrezione di Gesù.

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