XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
La scena del Vangelo che oggi la Liturgia ci propone si svolge il martedì o mercoledì santo, nel momento in cui Gesù, volendo sfidare i nemici, espone loro le parabole del ripudio d’Israele. Iniziando col simbolismo del fico inaridito (21, 18-22), Gesù conclude con i celebri “guai” (23,13-32), insieme alla profezia della distruzione di Gerusalemme (24,15-19) e della fine del mondo (24,29-31). S. Matteo riferisce, in successione, tre parabole: quella dei due figli, uno obbediente e uno disobbediente (21,28-32); quella dei vignaioli omicidi (21,33-43); infine, quella degli invitati a nozze, che è oggi oggetto della nostra riflessione.
Gesù paragona il regno dei cieli a un banchetto di nozze preparato da un re per suo figlio. Poiché gli invitati alle nozze non vollero parteciparvi, il re mandò i servi ai crocicchi delle strade con l’ordine di invitare alle nozze tutti quelli che avrebbero incontrati. La sala del banchetto dunque si riempì di buoni e cattivi; ma quando il re vi entrò, scorgendo un invitato senza la veste nuziale, lo cacciò via nelle tenebre “dove sarà pianto e stridor di denti”, perché “molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti” (22, 14). Secondo gli usi orientali, le nozze venivano celebrate col banchetto e agli invitati veniva rinnovato l’invito dai servi del padrone di casa poco prima della cerimonia. Se poi le nozze erano regali, i servi davano a ciascun invitato un abito di circostanza per accrescere lo splendore della festa.
Dal testo evangelico si può dedurre che vi sono due banchetti. Il primo, a cui partecipano buoni e cattivi: è il mistero del grano e della zizzania che devono crescer insieme (cf Mt 13,24ss); il secondo, a cui partecipano solo i buoni. Il primo, evidentemente, rappresenta la Chiesa militante; il secondo la Chiesa trionfante, nella quale nessuno può entrare senza l’abito nuziale.
A proposito dell’abito di nozze va notato che l’uomo privo di quell’abito non è uno solo, ma rappresenta un’intera categoria: quella dei cattivi. Dal testo, inoltre, si comprende che i servitori avevano soltanto il compito di condurre al banchetto buoni e cattivi, mentre spettava solo al re osservare e punire chi non era degno di parteciparvi. È un particolare non privo di rilievo. Nella Chiesa militante, infatti, buoni e cattivi vivono insieme, come il grano e la zizzania: non è compito dei buoni giudicare i cattivi (il loro compito semmai è quello di aiutarli a divenire buoni), ma solo del padrone, ossia del Signore.
L’abito di nozze è stato tradizionalmente inteso come simbolo della carità. Ma, ammonisce s. Agostino, “non una carità qualunque, perché talvolta sembra che si amino anche gli uomini legati dalla complicità di una cattiva coscienza. Quelli che si radunano per rubare (…), quelli che in coro concorde applaudono i corridori e i gladiatori del circo, spesso si amano; ma in loro non c’è la carità che viene dal cuore puro, dalla buona coscienza e dalla fede sincera; e l’abito nuziale è proprio questo genere di carità”. Non si tratta, dunque, di mera filantropia, benché oggi così di moda! Quante cose buone non servono a nulla se manca la vera carità. È ancora il Vescovo d’Ippona ad asserirlo: “Se non avessi la carità, potrei anche dare molte elemosine ai poveri e prodigarmi per il nome di Cristo fino all’effusione del mio sangue, fino a gettarmi nel fuoco: ma tutte queste sarebbero cose vane, perché si possono fare anche per vanagloria”. Di qui la necessità di operare con retta intenzione, senza indulgere a considerazioni umane, memori che il Signore ci scruta e ci conosce fin nelle parti più recondite dell’anima.
È quanto accadde all’uomo privo della veste nuziale quando entrò il re ed egli “ammutolì”. Tacque perché non poté discolparsi, ma tacque soprattutto perché chi l’accusava leggeva nel profondo della sua anima. Nel giorno del giudizio, infatti, ogni parola di discolpa tacerà dinanzi al Signore il quale è e sarà il più verace testimone della nostra coscienza.
“Allora il re ordinò ai servi: legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Torna qui la realtà tremenda dell’inferno, che il Signore ha predicato svariate volte nel corso della sua vita terrena. Contro l’errore di chi – anche nel mondo cattolico – nega la realtà dell’inferno o l’accetta solo alla ridicola condizione che sia vuoto, esso esiste e il Signore, anche oggi, ce lo ricorda affinché ci comportiamo come “figli della luce e non delle tenebre” . Padre Pio, a un tale che gli disse: “Padre, io non credo che l’inferno esista”, rispose: “Ci crederai quando ci andrai!”. A conferma dell’esistenza dell’inferno suonano le lapidarie parole finali di Gesù: “Molti sono i chiamati, pochi gli eletti” (v. 14). È un’asserzione ammonitrice terribile. Tutti noi, infatti, nella Chiesa cattolica siamo “chiamati”, ma ignoriamo se apparteniamo anche al numero degli eletti.
“Le nozze – afferma s. Gregorio Magno commentando questa parabola – sono le nozze di Cristo con la sua Chiesa e l’abito è la virtù della carità. Entra infatti nella sala del banchetto, senza avere l’abito nuziale, chi stando nella santa Chiesa ha la fede ma non la carità”. Il Vangelo odierno deve dunque spingerci ad un attento esame di coscienza per verificare se abbiamo l’abito nuziale o se siamo tra quelli che spavaldamente partecipano al banchetto senza le disposizioni dovute. In tal caso saremmo tra i chiamati, ma non tra gli eletti. Ricordiamo, invece, che solo la carità ci rende graditi agli occhi del Signore e che alla sera della vita saremo giudicati sulla carità.