XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO A

L’episodio evangelico che­ la Liturgia ci presenta oggi si svolge durante il turbolento giorno del Martedì Santo. I farisei, irritati dalla parabola dei vignaioli omicidi – che avevano ben compreso esser diretta a loro –, si riuniscono subito per tener consiglio contro Gesù. È quanto esprime con più chiarezza l’evangelista Marco nel testo parallelo: «Allora cercarono di catturarlo, ma ebbero paura della folla; avevano capito infatti che aveva detto quella parabola contro di loro. E, lasciatolo, se ne andarono. Gli mandarono però alcuni farisei ed erodiani per coglierlo in fallo nel discorso» (12,12-13).

I farisei erano scrupolosi esecutori della Legge e antiromani, considerando il regime di Erode un’indebita usurpazione. Gli erodiani, al contrario, sostenevano la dominazione romana in Palestina. È davvero sorprendente vedere come due partiti così contrastanti, com’erano i farisei e gli erodiani, si siano trovati in perfetto accordo nell’attaccare il Signore. Per cogliere in fallo Gesù, dunque, gli pongono un quesito capzioso: «È lecito o no dare il tributo a Cesare?» (Mt 22,14). Orbene, se avesse risposto positivamente, i farisei l’avrebbero screditato davanti al popolo, che accettava malvolentieri la dominazione straniera; se avesse risposto negativamente, gli erodiani l’avrebbero denunciato all’autorità romana.

Ma non si può competere con la Sapienza increata! Il Signore, infatti, risponde con un discorso di tipo socratico, cioè con domande e risposte articolate in modo da portare l’ascoltatore a dedurre da sé la conclusione derivante dalle premesse ch’Egli stesso ha posto. Con la sua scultorea risposta: «Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (ivi, 17), Gesù pronuncia due importanti sentenze. Da un lato applica un principio politico riconosciuto dal Talmud, dicendo ai Giudei: se il potere di un re si estende su tutto il territorio in cui circola la sua moneta, poiché voi l’usate vi riconoscete sudditi di Cesare e, dunque, siete tenuti ad osservare i vostri doveri di cittadinan­za. Dall’altro aggiunge un’af­fer­mazione inaspettata, con cui si riferisce alle relazioni dell’uomo con Dio. Dare a Dio quel che è di Dio significa, infatti, osservarne tutti i Comandamenti, il che è assai più impegnativo del semplice pagamento del tributo a Cesare. La Divina Sapienza ha dunque vinto l’ipocrita astuzia dei nemici.

Ma le parole di Gesù, essendo parole di vita eterna, hanno un significato assai più profondo e un fine molto più alto di quello di dirimere la subdola questione avanzata dai farisei e dagli erodiani dell’epoca. Ai tempi di Gesù, Cesare a Roma era tutto: era imperatore e pontefice. Il Signore con le sue lapidarie parole: «Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio», rivendica allo Stato un’esistenza vera e propria, ma aggiunge che lo Stato non è tutto: c’è Dio. Il padre Giovanni Semeria, a tal proposito, scrisse: «Lo Stato non è tutto, c’è la Chiesa; il corpo non è tutto, c’è l’anima; il tempo non è tutto, c’è l’eternità. E poiché c’è l’eternità, c’è Dio, c’è la religione; lo Stato non solo non è tutto, ma non è neanche il primo. È il secondo. La logica più elementare sentenzia così. E perciò la religione in nome di Dio può formulare e consacrare il buon diritto dello Stato; Dio (Gesù) può dire in tono categorico: “Date a Cesare il suo”, non Cesare può dire, allo stesso modo e titolo: “Date il suo a Dio”». Dunque, se è giusto e doveroso pagare il tributo a Cesare, ossia osservare le leggi che il vivere in uno stato necessariamente comporta (a condizione, naturalmente, che siano giuste ed eque), molto più giusto e doveroso è dare a Dio quel che è di Dio, ossia adempiere i doveri di figli nei confronti del nostro ottimo Padre e Creatore.

Con questa asserzione Gesù volle anche richiamare l’attenzione dei suoi connazionali sull’importanza della fedeltà a Dio, da loro tante volte violata. È proprio perché essi non avevano dato a Dio quel che dovevano che erano costretti a su­bire la dominazione straniera. «Quanti padroni – ammonisce s. Ambrogio – finisce per avere chi rifiuta l’unico Padrone». Pagare il tributo a Cesare non è una questione essenziale, ma dare a Dio ciò che gli si deve è questione vitale e fondamentale, anche se bisogna scontrarsi con l’autorità di Cesare.

Se diamo ora uno sguardo al mondo, constatiamo che Cesare è certamente più onorato di Dio. Che dire, infatti, di tutte le moderne forme di statolatria, in cui lo Stato si erge a supremo arbitro di tutto, anche della vita e della morte degli uomini? Statolatria non è solo il comunismo, lo stalinismo, il nazismo o qualsiasi altra forma di dittatura. Statolatria è anche la legalizzazione dell’aborto, della contraccezione, dell’eutanasia ed ogni intervento dello Stato sulla vita umana che non gli compete perché appartiene esclusivamente al Creatore.

In realtà il concetto di statolatria, di origine pagana, era già diffuso tra Greci e Romani. Il ritorno ad esso, dunque, non segna certo un’evoluzione, ma una degradante ed aberrante involuzione. «Ma il Cristo – afferma ancora padre Semeria – lo ha già condannato per sempre, come per sempre ha condannato la religiosità a base politica e nazionale col suo veramente divino e immortale: a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».

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