XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
SOLENNITA’ DI CRISTO RE
La domenica odierna, XXXIV del Tempo ordinario, segna la fine dell’Anno liturgico. La Santa Chiesa molto opportunamente ha stabilito di celebrare proprio oggi la festa di N. S. Gesù Cristo Re dell’Universo. Essa è stata istituita da papa Pio XI nel 1925 con l’Enciclica Quas Primas. Ciò fece soprattutto per il significato storico e sociale che poteva avere la festa della regalità di Cristo ed anche perché l’idea del suo Regno non passasse inosservata al popolo cristiano.
L’origine del Regno di Cristo è divina, la sua estensione non è limitata ai confini della vita presente ma abbraccia tutta l’eternità, il suo fine non è il godimento di beni terreni ma di beni eterni; vive sulla terra solo per condurci in cielo. Questo Regno sembra debole, come Cristo durante il processo quando disse a Pilato: “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18,36), perché cela la forza di Dio. Per appartenere a questo Regno come sudditi, bisogna ascoltare le parole di verità e di grazia che sgorgano dalle labbra di Cristo.
S. Tommaso afferma che il Regno di Cristo è superiore a tutti gli altri per tre ragioni. Anzitutto per l’estensione temporale, perché il Regno di Cristo – a differenza di tutti gli altri regni umani – esiste adesso e durerà fino al rinnovamento finale del mondo, come risulta dalla visione di Daniele. In secondo luogo per l’universalità del dominio che si estende in tutto il mondo e su tutte le creature. Infine per la dignità di Colui che regna, il quale – in quanto uomo-Dio – è un re assolutamente unico e imparagonabile.
S. Cirillo d’Alessandria molto giustamente afferma che il fondamento della regalità di Cristo risiede nell’unione ipostatica. “Egli – afferma – ottiene la potestà su tutte le creature, non carpita con la violenza né da altri ricevuta, ma la possiede per propria natura ed essenza”. In altri termini, il Regno di Cristo si fonda sul principio mirabile dell’unione dell’umanità e della divinità nella Persona divina di Cristo Signore. Da ciò scaturisce – come afferma Pio XI nell’Enciclica – che Cristo non solo deve esser adorato come Dio dagli angeli e dagli uomini, ma anche a lui come Uomo essi devono esser soggetti ed obbedire. Il che significa che per il solo fatto dell’unione ipostatica Cristo ha la potestà su tutte le creature.
Ma Cristo – rileva ancora il Pontefice – regna sull’universo non solo per diritto di natura, ma anche per diritto di conquista, in forza della Redenzione. “Noi infatti – avverte s Pietro – non a prezzo di argento e oro siamo stati riscattati […], ma col sangue prezioso di Cristo come di agnello senza difetto e senza macchia” (1 Pt 1,18-19).
Come tutti i regni di questo mondo, anche il Regno di Cristo consta della triplice potestà legislativa, giudiziaria ed esecutiva. Legislativa, perché Cristo – come mostrano i Vangeli – non solo ha promulgato leggi ma ha egli stesso legiferato. Giudiziaria, perché Gesù, davanti ai Giudei che lo accusavano di aver violato il sabato guarendo un paralitico, afferma che a Lui dal Padre è stata attribuita la potestà giudiziaria: “Il Padre non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio” (Gv 5,22). In ciò è incluso anche il diritto di giudicare l’operato degli uomini e punirli o premiarli al momento del rendiconto finale. Potestà, infine, esecutiva, che si attribuisce a Cristo poiché tutti devono obbedire al suo comando e nessuno può sfuggire ad esso e alla ricompensa o punizione da lui stabilite.
Ecco perché la Liturgia odierna pone alla nostra meditazione il Vangelo di Matteo sul giudizio finale. Dopo l’insegnamento sulla vigilanza richiesta al cristiano, illustrato con tre parabole (la parabola del servo fedele, la parabola delle dieci vergini e quella dei talenti), il Signore termina il cosiddetto “discorso escatologico” con l’insegnamento sul giudizio finale che sarà Gesù stesso a presiedere.
Egli verrà come maestoso Re con i suoi angeli in grande splendore e separerà i buoni dai cattivi. La ragione della separazione sembra risiedere nella carità materiale, ma in realtà il Signore si limita alla sola carità fatta a Lui e per Lui nella persona dei poveri e dei sofferenti. Egli infatti non loda le opere di misericordia per il sollievo e il conforto che hanno apportato ai sofferenti, ma perché sono state fatte a Lui nella persona dei sofferenti. Potremmo dire che il Signore con questa pericope sancisce l’abissale differenza che esiste tra carità cristiana e filantropia, le quali non vanno mai confuse. La filantropia, infatti, non basta alla salvezza. È quanto – in altri termini – afferma Pio XI quando, nell’Enciclica, scrive che il Regno di Cristo richiede dai suoi sudditi non solo l’animo distaccato dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza di costumi e la fame e sete di giustizia, ma anche che essi rinneghino se stessi e prendano la loro croce per seguire il Maestro.
A conferma di ciò, anche Padre Pio asserisce che bisogna stare in questa vita sul Calvario ed adorare Gesù Crocifisso, se si vuole adorare nell’altra Gesù glorificato. E spiega: “Gli abitanti della collina del Calvario devono essere spogliati di tutti gli abiti ed affezioni mondane, come il loro re lo fu delle vesti che portava quando vi giunse […] Quant’è amabile l’eternità del cielo, e quanto miserabili i momenti della terra! Aspira continuamente alla prima, e disprezza arditamente la comodità e i momenti di questa mortalità” (Ep. III, p. 701).
Sulle orme di Padre Pio, viviamo con lo sguardo rivolto verso la beata eternità, dove il Re dell’universo non solo ci attende, ma “passerà a servirci”, se in questa vita avremo vissuto in conformità alle leggi del suo Regno d’amore.